come la filosofia, si è posta il problema della rappresentazione, della riproduzione, della simbolizzazione e della mimetizzazione di ciò che è “reale” in un mondo sempre più marcatamente privo dei tradizionali confini tra vero e verosimile, tra realtà e apparenza, tra “cosa in sé” e “noumeno”, per dirla con Kant. In un mondo sempre più de-realizzato, sempre più meticciato e fondamentalmente sempre più complesso e ambiguo, "la sola suspense che ci resta” – come scriveva quasi trent’anni fa uno dei più originali filosofi contemporanei, Jean Baudrillard –, è quella “di sapere fin dove il mondo può derealizzarsi prima di soccombere alla sua troppo poca realtà, o meglio fin dove può iperrealizzarsi prima di soccombere alla sua troppa realtà (come dire, quando il mondo, divenuto più vero del vero, cadrà sotto il colpo della simulazione totale)". (Jean Baudrillard, Le crime parfait, 1993). L’invasione dei media nella nostra vita, fino al paradosso di un mondo “medializzato” oltre le sue stesse possibilità fisiche e oltre la nostra stessa immaginazione – un mondo dove la nostra vita sembra prendere senso e sostanza solo fino a quando può e riesce a specchiarsi nel suo “doppio” virtuale, plasticamente rappresentato nella proliferazione massiccia dei social media –, è divenuto il parametro di riferimento non solo di un’esistenza individuale sempre più alienata e sempre più staccata dalle esigenze del proprio io più profondo, ma anche del rapporto sempre più nevrotico e confuso tra esistenza privata e vita pubblica, tra le esigenze della sfera individuale e le necessità, sempre più pressanti e invasive, delle relazioni sociali digitalizzate.
Giorgio Tentolini opera da diversi anni con una tecnica apparentemente semplice e al contempo molto complessa e stratificata, non solo dal punto di vista tecnico-fattuale ma a che per i risvolti concettuali e per i molteplici significati sottesi al lavoro: i suoi volti di donna, le sue silhouettes di ragazze o di statue antiche, tutte realizzate con la rete metallica, rimandano infatti da una parte a una riscoperta del “fare” manuale, a quel recupero di tecnica e di manualità che molta arte contemporanea ha in questi anni saputo rivalutare proprio in contrasto con un’eccessiva smaterializzazione ed evanescenza delle immagini e delle stesse relazioni sociali; dall’altra, invece, coincide paradossalmente proprio con il suo opposto: ovvero con il richiamo e l’evocazione di immagini che, ad uno sguardo superficiale, sembrerebbero frutto di processi informatici, conseguenza diretta della rarefazione dell’immagine tipica del digitale.L’effetto “pixel” ottenuto, a livello visivo, dagli incroci della rete metallica – materiale “grezzo” e arcaico, atipico e pochissimo utilizzato in ambito artistico, che richiama una processualità di lavoro di tipo artigianale, quantomai fisico e concreto –, offre infatti all’occhio dello spettatore, soprattutto ad uno sguardo leggermente distanziato, l’impressione di una tecnica immateriale, conseguenza diretta della rarefazione dell’immagine tipica del digitale. Il paradosso del lavoro di Giorgio Tentolini si gioca dunque, già fin dal primo sguardo, all’insegna dell’ambiguità: ambiguità dei materiali utilizzati, ambiguità dei significati, ambiguità caratteriale e concettuale del senso stesso del lavoro artistico.
Dove collocare, infatti, il lavoro di Tentolini? Fin dalla rinuncia a una collocazione stabile e unitaria tra gli apparentemente inconciliabili poli opposti del linguaggio artistico tradizionale, abitualmente ripartito tra le due diverse anime dell’astratto e del figurativo, Tentolini ha scelto di percorrere una strada impervia, che, pur sembrando strizzare continuamente l’occhio, ad uno sguardo retinico superficiale, a immagini conosciute e facilmente riconoscibili a livello istintivo da qualunque spettatore medio di trasmissioni televisive o di immagini computerizzate sputate fuori ogni secondo dal ventre molle del web (volti, silhouettes, profili, tutti prevalentemente femminili, oltre ad immagini prelevate dall’infinito serbatoio della classicità greca e romana, con la sua cristallizzazione statuaria della bellezza, sia maschile che femminile, nelle forme austere e ieratiche della “misura” classica), essa pare però anche, al contempo, continuamente negare ogni forma di semplificazione di tipo formale e concettuale. Che i volti femminili evocati e messi in scena dalla pratica tentoliniana, in mezzo al fitto reticolo di linee trasversali che ne accentua il carattere dinamico-percettivo dagli effetti a tratti quasi optical, siano infatti formalmente graziosi, seducenti e facilmente assimilabili a una sorta di modello eterno e universalmente riconoscibile di bellezza “classica” e senza tempo, non è minimamente in discussione; accade tuttavia che, come quando un eccesso di semplificazione apparente rivela in realtà, ad uno sguardo più attento, un ben più complesso reticolo di significati sottesi e volutamente celati e sottaciuti, il lavoro di Giorgio Tentolini sveli la sua fitta rete di messaggi sotterranei e di retrosignificati proprio a partire dal rapporto sfuggente e difficilmente decifrabile tra staticità e movimento, tra materiale e immateriale, tra il continuo e mutevole gioco incrociato delle griglie metalliche e la compiutezza, immobilità e finitezza dell’immagine centrale. Se la ricca geometria da cui sono composte le immagini appare infatti a un primo sguardo solida e ferrea, tutto, in queste opere, appare però attraversato, quasi loro malgrado, da una corrente di mutevolezza, di movimento, di dinamicità, di impermanenza. È la luce, che, giocando coi riflessi delle strutture metalliche di cui è composta l’immagine, e assecondando il muoversi e il saettare del nostro sguardo sulla superficie e oltre la superficie dell’opera, sembra scavare, seducentemente, fin dentro e oltre l’immagine rappresentata, per rivelarci i suoi segreti più nascosti.
Il procedere di Tentolini per estrarre, dall’accumulo solo apparentemente caotico di fili di rete metallica, l’immagine finale, che emerge dal suo fondo di pieni e di vuoti, di luci e di ombre con la semplicità e la potenza di un’antica epifania, è eminentemente rizomatico: la sua chiave di lettura e di interpretazione è infatti la molteplicità e la continua replicazione dei livelli, dei piani, dei punti di vista; la ripetizione differente di ogni suo modulo ossessivamente reiterato porta insieme alla formazione di un’immagine semplice e complessa, che allude all’estetica virtuale ma che conserva ancora dentro di sé le stimmate della materialità fattuale, è insieme statica e continuamente mutevole, solida e fluttuante, aerea e mnemonicamente persistente. Quello di Tentolini è un procedere insistito e vagamente assillante, creato, pezzo dopo pezzo, per continuo accumulo, per inesausto intreccio di nodi, di linee, di fili, in una proliferazione costante e sovraccarica dei modelli formali; è un caotico e ordinatissimo unicum formale che sembra perdere continuamente il proprio centro, ma che ogni volta, paradossalmente, lo ritrova e lo ricrea da capo. Non c’è fondo e non c’è superficie nei quadri di Giorgio Tentolini, poiché lo stesso processo con cui sono stati realizzati è, per assioma, antigerarchico, antidescrittivo, anticentrico: reticolare anziché sequenziale, esso ci porta, dietro la semplicità e seduttività del suo fare, a delineare modalità di pensare la superficie dell’opera, il suo centro gravitazionale, il suo stesso statuto, in maniera alternativa rispetto al dualismo tra iconico e aniconico, tra centrale e periferico, tra profondo e superficiale. Come in una saga o in un’epopea antica, dove la realtà stessa si plasma man mano che viene tramandata e raccontata, dove le storie interne ad ogni singola narrazione si succedono una dentro l'altra, tra incroci e collegamenti non lineari, così nell’operare artistico di Tentolini, preso come opera unica, a sé stante, anziché come serie di quadri separati gli uni dagli altri, i volti raffigurati si succedono l’uno all’altro, divenendo interscambiabili, nella loro bellezza adamantina; ma ciò che conta, paradossalmente, non è tanto, o solo, il risultato finale, ma la complessità e la non-linearità del processo attraverso il quale l’artista è arrivato a elaborarlo, metafora di un tentativo (im)possibile di dare ordine formale al caos e alla fatale ambiguità del reale; e, di conseguenza, lo stupore, la meraviglia, mista a tratti ad incredulità, per questa non-linearità, per questa complessità di elaborazione e per questa “miracolosa” epifania, che porta tanti semplici fili di metallo a farsi, misteriosamente, icone rizomatiche di un tempo fluido.